The Stealer of Dreams Tarantino’s Sixties, or Filming the Void. Parte 3: Apocalypse Now!
Nella prima sezione abbiamo accennato della difficoltà nella datazione esatta della fine dei Sixties. E se, come dicevamo, si può essere d’accordo sulla data di nascita, il 1955, sulla loro fine il consenso è meno unanime, variando tra il 1969 ed il 1974/1975, con la caduta di Nixon (e di Saigon) e soprattutto l’estinguersi, negli Usa, dei grandi movimenti di massa e con il declino della classe operaia, della lotta di classe e della produzione industriale quale motore dell’economia. Un declino, questo, che è sì stato favorito sia dall’ascesa della finanzia, ma che essa stessa, la finanziarizzazione, è stata a sua volta favorita dal declino della produzione industriale e del lavoro. Il lincolniano «government of the people, by the people, for the people» si andava così tramutando in un qualcosa di sempre più simile ad una governance finanziaria.
È però possibile, come vorremo fare noi, leggere quello che mediamente è ritenuto come l’anno della fine dei Sixties (e come visto non solo per motivi cronologici), cioè il 1969/1970, come l’anno in cui in realtà è iniziata la loro fine, in una lenta eclissi che si è protratta per gran parte dei “long seventies”, per così arrivare al 1979.
Anno, il 1979, durante il quale due eventi occorsi a distanza di solo un mese – uno politico ed uno artistico – possono essere letti come ciò che ha pubblicamente ratificato nella coscienza collettiva americana la fine del “sogno comune”, del sogno che l’uguaglianza, la giustizia, l’equità e la libertà (cioè un’autentica democrazia) derivassero dalla cooperazione dell’un per l’altro; fine, sì, ma allo stesso tempo inizio (o “riscoperta” per usare il termine con cui l’11 gennaio 1989 Reagan, nel suo discorso d’addio, volle riassumere la sua presidenza) di un altro. Altro inizio che, per coloro che avevano vissuto i 1960s come un’epoca di speranza e cambiamento, assomigliava però più ad un “incubo individuale”, dove (come vogliamo dire insieme a MacReady, il protagonista de La Cosa di John Carpenter del 1982) ognuno, sempre più prostrato, è portato a pensare unicamente a se stesso e nessuno si fida più di nessuno, convincendosi così di potercela fare da solo, di riuscire a salvarsi, e magari salvare anche il mondo, per conto proprio. Un sogno/incubo dove, di converso, la povertà non veniva più intesa come un problema sociale al quale – come nel keynesismo – il governo doveva trovare una qualche soluzione, ma un qualcosa che attiene esclusivamente all’individuo in quanto tale, che diventa il solo responsabile del proprio destino e quindi della propria situazione sociale ed esistenziale. Dopo quarant’anni si abbandonava, cioè, ogni idea di collective enterprise e si ritornava al valore dell’individualismo (individual enterprise) come perno dell’identità culturale americana, dando così di nuovo vita ad un’autentica enterprise culture. Nel 1979, in neanche dieci anni, l’America era diventata tutto un altro mondo.
È, questa, la realtà che nel “Crisis of Confidence Speech”, ma passato alla storia come il “Malaise Speech”, Jimmy Carter ha “sbattuto in faccia” ad ogni cittadino americano il 15 Luglio del 1979. Il “Malaise Speech” il quale avrebbe dovuto cambiare gli Usa, ma che al contrario ha decretato la fine della sua presidenza e spianato la strada al market fundamentalism di Ronald Reagan; quegli anni, a cavallo dei 1980s, che sono stati ben fotografati da Joker di Todd Phillis del 2019, attraverso una New York già “Drop Dead” a causa della bancarotta del 1975 e sempre più neoliberalizzata, decadente, imbruttita ed incattivita dalle drastiche misure di austerity, fiscali e nel walfare, attuate praticamente da un giorno all’altro. D’altronde, e non solo per il protagonista di Joker e per molti cittadini della New York dei primi 1980s, cos’è in fondo l’«austerity» se non il mood politico di una “speranza” squallida e desolata. In solo un decennio, così anche il discorso voleva denunciare, il paese del “We” si era trasformato nel paese del “Me” – «Me Decade» è appunto un altro sintagma utilizzato per descrivere i 1970s – quello dove, con le stesse parole di Carter, «troppi di noi ora tendono ad adorare se stessi e il consumo. L’identità statunitense non è più definita da ciò che si fa, ma da ciò che si possiede. Abbiamo anche scoperto, però, che possedere cose e consumarle non soddisfa il nostro desiderio di senso, di un significato. Abbiamo imparato che l’accumulo di beni materiali non può riempire il vuoto di vite che non hanno né fiducia [nel futuro] né scopo».
I cittadini, però, non l’hanno pensata così. Dopo qualche giorno – nei quali il coraggioso discorso di Carter aveva ottenuto diversi consensi e anche suscitato una certa ammirazione, facendo salire l’indice di gradimento nei suoi confronti dell’11% –, gli americani, molti dei quali interpretando il discorso come un tentativo del proprio presidente di «scaricare» su di loro la responsabilità per la drammatica situazione economica, gli hanno voltato le spalle, scegliendo di votare non solo per Reagan, ma soprattutto contro la Great Society ed il New Deal Liberalism, alle quali venivano attribuite molte delle responsabilità per la grave situazione economica e sociale. A leggerla più attentamente, infatti, nella sua prima elezione Reagan vinse non solo per un reale appeal e consenso – come invece fu nel 1984 –, bensì perché una buona parte dell’elettorato scelse di votare per chiunque che non fosse Carter. È anche per questo che non è esagerato sostenere, come abbiamo fatto, che le elezioni del 1980 in Usa, più che sui candidati, espressero un giudizio sulle politiche economiche della nazione, trasformando la competizione in una sorta di scontro tra diverse visioni economiche antagoniste, quelle di Keynes/Samuelson e Milton Friedman, per decretare con la vittoria di Reagan la sconfitta del keynesismo – non più in grado, tra le varie cose, di rendere ragione di quella che nella sua logica era considerabile come una sorta di monstrum al limite dell’impossibilità (cioè la stagflazione) – ed il trionfo del market fundamentalism. In questo senso non è esagerato definire le presidenziali del 1980 anche come «Inflation Election». Quel Reagan, The Great Communicator, che, proprio grazie alla sua invidiabile abilità retorica, è stato in grado di sfruttare a suo favore – a favore, cioè, della metaforica sull’American Greatness e l’American Exceptionalism, e per i quali un americano non dovrebbe mai giustificarsi o chiedere scusa –tutte le equivocità e debolezze del Malaise Speech di Carter, per trasformarlo, così, in un perfetto boomerang politico.
Non è qui possibile addentrarsi nel merito storico, talvolta trascurato, dell’importante discorso di Carter, come neanche in una disamina generale delle vicende che hanno portato al trionfo di Raegan, ma per più di un rispetto si possono leggere questi eventi come l’atto pubblico della fine “politica” dei Sixties e, insieme ad essi, la fine di “Camelot”, dell’utopia kennediana e della Great Society johnsoniana, già nei primi 1980s un ricordo di un passato lontano che già si era fatto leggenda. Dall’epoca dell’uguaglianza, della speranza che una sempre maggiore uguaglianza avrebbe portato al progresso sociale ed economico, all’età della disuguaglianza, della speranza che attraverso «l’istituzionalizzazione» della disuguaglianza – quella, seppur qui semplificando, proposta dalla cosiddetta trickle-down economy reaganiana – lo sviluppo economico avrebbe ripreso a correre.
Esattamente un mese più tardi, il 15 agosto del 1979 Apocalypse Now di Francis Ford Coppola fa il suo debutto nei cinema statunitensi, contribuendo a ratificare nell’immaginario popolare la fine dei Sixsties, del dionisiaco americano, della Great Society e del New Deal Liberalism; lo ha fatto attraverso un vero e proprio delirio di onnipotenza estetica, un baccanale cinematografico che allo stesso tempo è anche un’elegia della fine.
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