La costruzione mediatica del “turpe mestiere” nella transizione legislativa in Italia (1948-1960)

La costruzione mediatica del “turpe mestiere” nella transizione legislativa in Italia  (1948-1960)

Abstract: La proposta di abolire la regolamentazione della prostituzione, presentata da Lina Merlin nel 1948, suscitò molteplici e frequenti dibattiti, intorno alla legittimità o alla illegittimità della prostituzione di Stato. Infiammati dalla necessità politica di controllare e legiferare sulla morale sessuale degli italiani, i dibattiti si svolsero non solo nelle sedi istituzionali del “paese legale” ma anche presso la pubblica opinione, specchio del “paese reale”. Il saggio, ripercorrendo momenti della tenace campagna stampa anti-Merlin condotta attraverso la costruzione di una identità nazionale regolamentista, vuole disvelare la dicotomia tra retaggi etico-culturali nelle istituzioni pubbliche e ineludibili processi di modernizzazione che investono la prostituzione e rivoluzionano la sessualità degli italiani.

Introduzione

Il regime di regolamentazione che per quasi un secolo ha disciplinato il fenomeno della prostituzione italiana, è destituito dalla legge Merlin, entrata in vigore nel 1958. Un dispositivo dotato di una carica quasi sovversiva che avrebbe delegittimato i principi a fondamento della doppia morale sessuale. Una morale che, attribuendo all’uomo prepotenti e insopprimibili bisogni sessuali, giustificava l’esistenza di una categoria di donne che, chiamate a soddisfarli, erano percepite come socialmente necessarie. Il saggio, pur non trascurando la portata emancipazionista della legge Merlin che liberava la “prostituta di Stato” dal giogo dello sfruttamento, non assume la prospettiva di genere come chiave di lettura privilegiata. Intende, invece, offrire una lettura inedita della dialettica che si instaurò, tra politica, rappresentazione mediatica e opinione pubblica, intorno alla legittimità o all’illegittimità del modello regolamentista.

La ricostruzione della storia della regolamentazione italiana consente di individuare una linea di continuità fra il processo di criminalizzazione della prostituta e l’efficacia di un duplice dispositivo di controllo repressivo: amministrativo-poliziesco e igienico-sanitario. Icona della prostituzione di Stato e del contenimento della sessualità maschile pre-matrimoniale e extra-matrimoniale, la casa chiusa assume una funzione paradossale quasi grottesca. Luogo che, se da un lato, accoglie e protegge donne che, prostitute per necessità o per vizio, sono sottratte al rischio di delinquere e alle relative sanzioni, dall’altro, è una trincea che tutela la società italiana dal dilagare di una prostituzione larvata, all’origine della degenerazione dei costumi e della morale delle italiane e degli italiani.

Pro(i)stituzioni-Merlin-Prostituzione
Crimen, 21 (1952)

Un osservatorio privilegiato e del tutto inedito, per comprendere le paure sociali, insistentemente agitate in sede di dibattito politico-istituzionale, può essere individuato nel settimanale di cronaca nera «Crimen». Diretta dal 1946 al 1952, da Ezio D’Errico (che negli stessi anni fu al centro di procedimenti giudiziari per aver pubblicato immagini “raccapriccianti” e “impressionanti” di donne suicide e vittime di uxoricidio), la rivista seppe catalizzare la curiosità morbosa del pubblico italiano. «Crimen», interprete delle ragioni dell’anti abolizionismo oltranzista, nell’inchiesta Referendum (1948) e in una successiva dal titolo Le due verità sulla Legge Merlin del 1952, oltre a raccogliere le opinioni dei lettori comuni, ripropone le posizioni antiabolizioniste di personalità di spicco della classe medica italiana e, nello stesso anno, inaugura una rubrica di Lettere al direttore. Veicolo efficace di divulgazione delle reazioni sollevate dal disegno di legge Merlin, per la prima volta, «Crimen» rivela aspetti misconosciuti della prostituzione italiana, pubblicando lettere di tenutari che rivelano l’adulterazione dei dati sul volume di affari delle case chiuse, di ex prostitute e ex tenutari pentiti che denunciano lo sfruttamento e propongono un regime di autogestione dei luoghi di prostituzione. Pur dichiarandosi neutrale, la rivista favorisce un processo di sensibilizzazione dei suoi lettori alla causa antiabolizionista al fine di promuovere una coscienza collettiva informata e consapevole.

L’articolo, avvalendosi di fonti del Ministero dell’Interno, successive all’entrata in vigore della legge Merlin, mostra come in seno alle istituzioni pubbliche prevalesse una “fede antiabolizionista” che, anche a fronte di una prostituzione divenuta ormai libera, sollecitava una nuova ingerenza repressiva il cui intento rimaneva quello di preservare la moralità degli italiani.

 

  1. Dalla prostituzione di Stato alla prostituzione libera

La regolamentazione della prostituzione fu codificata, già prima della nascita del Regno d’Italia, con l’entrata in vigore del Regolamento Cavour, nel 1860. Il dispositivo si ispirava al modello francese, di cui il governo piemontese aveva apprezzato la capacità di controllo capillare e la razionalità repressiva.

Fra i teorici di un regolamentismo ancora embrionale, lo scrittore libertino Restif de la Bretonne aveva proposto alle istituzioni pubbliche francesi di istituire, nelle periferie delle grandi città, edifici confortevoli ma dall’architettura non elegante, da destinare all’attività di meretricio. Egli fu l’unico a riconoscere che, ai fini di un’efficace profilassi delle malattie veneree, fosse necessario sottoporre non solo la prostituta ma anche il cliente a sistematici e ricorrenti controlli igienico-sanitari.

Di avviso diverso, fu il medico Alexandre Jean Baptiste Parent-Duchâtelet (1790-1836) il quale, persuaso che la prostituta rappresentasse l’unico veicolo di contagio venereo, aveva teorizzato un sistema di controllo repressivo, a carico delle sole donne, tanto sotto il profilo igienico-sanitario quanto sotto il profilo amministrativo-poliziesco.

Nella sua opera De la prostitution dans la ville de Paris (1836), egli aveva assimilato la prostituta alla cloaca della città. Entrambe, infatti, erano essenziali, in un centro urbano, allo smaltimento di elementi impuri: la prostituta, votata a soddisfare le insopprimibili pulsioni sessuali maschili, la cloaca, deputata a raccogliere i rifiuti cittadini. Organizzare la prostituzione, dunque, significava istituire un «servizio pubblico» capace di rispondere alla razionalità e all’efficienza amministrativa del nuovo Stato moderno.

A tutela dell’ordine pubblico, la moderna legislazione in materia di prostituzione avrebbe dovuto sancire la privazione della libertà individuale per le filles publiques. Donne, queste ultime, che, a causa dell’esuberanza delle loro passioni e dei loro costumi sessuali, si erano rese indegne della libertà individuale, divenendo, così, soggetti passivi delle misure repressive che le avrebbero raggiunte, una volta varato il nuovo regime di regolamentazione.

Il modello immaginato dal medico francese prevedeva che le prostitute, a causa della loro forza contaminatrice dell’ordine sociale e della salute pubblica, fossero sotto il controllo diretto della polizia. Il prefetto, a cui sarebbe stato conferito un potere assoluto e discrezionale, diventava unico custode e garante del buon costume. Si potrebbe considerare, a giusto titolo, che Parent-Duchâtelet sia stato il precursore della classe medica, impegnata a diffondere l’angoscia venerea e la sifilofobia.

Il progetto francese di regolamentazione della prostituzione ispirò anche la normativa del Regno di Sardegna (1855), estesa più tardi ai territori annessi con l’entrata in vigore del Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione (1860), passato alla storia come Regolamento Cavour e la cui efficacia si protrasse per circa trent’anni.

Allontanandosi dall’accentramento amministrativo proposto da Parent-Duchâtelet, il Regolamento cavouriano istituiva un apposito ufficio sanitario in stretto contatto con la Questura e, presso lo stesso ufficio, allestiva una sala celtica per le visite sanitarie, diretta da un ispettore, con funzione di coordinamento di tutti i provvedimenti igienico-sanitari tesi a impedire la diffusione delle malattie veneree. In questo modo, prendeva forma una divisione dei poteri tra direttore, a cui spettava la vigilanza amministrativa, e ispettore, responsabile della vigilanza sanitaria. L’irreggimentazione autoritaria della prostituzione doveva procedere parallelamente con l’ispezione coatta delle prostitute.

Il dispositivo regolamentare prevedeva l’iscrizione, volontaria o coattiva, all’ufficio sanitario, di tutte le prostitute la cui attività fosse notoria, sia che esse esercitassero nelle case di tolleranza, la cui licenza di esercizio era rilasciata dalla Questura, sia che esercitassero in case diverse. Dall’iscrizione obbligatoria discendevano una serie di vessazioni codificate che avvolgevano l’intera vita delle prostitute, ponendole fuori dal diritto comune, limitandone la libertà personale e di movimento nonché subordinando il trasferimento da una “casa” ad un’altra all’assenso preliminare del questore o dell’autorità di pubblica sicurezza.

Il Regolamento ammetteva le cosiddette «meretrici isolate», ossia non residenti in case di tolleranza ma, al contempo, non consentiva alle ospiti delle case chiuse di esercitare in un’abitazione privata, se non per gravi motivi di famiglia o di salute.

Una prostituta “pentita” che desiderasse interrompere la sua attività, non solo avrebbe dovuto provare il possesso di mezzi di sussistenza adeguati ma anche subire una visita medica settimanale, nel trimestre successivo all’abbandono del meretricio, al fine di scongiurare il pericolo di contagio venereo. In questo ossessivo contesto di controllo igienico-sanitario, tutte le prostitute erano soggette a visite bisettimanali presso l’ufficio sanitario delle singole città dove era conservato il registro indicante «il nome, il cognome, l’età, la patria della donna, se nubile, maritata o vedova, i connotati; il nome e cognome dei genitori, la provenienza, la professione e l’abitazione» (art. 22).

Il regime italiano codifica il profilo della prostituta di Stato, alla quale nega la libertà personale e conferisce una nuova identità all’interno della casa chiusa. Oltre che come focolaio di morbilità venerea, la prostituta è un soggetto pericoloso da contenere e marginalizzare in luoghi di irreggimentazione che, secondo la lezione di Michel Foucault, si trasformano in istituzioni totali e totalizzanti.

I princìpi a fondamento della regolamentazione ottocentesca persistono, nel XX secolo, attraversando la prima e la seconda legislatura dell’Italia repubblicana. I due dispositivi di controllo repressivo, amministrativo-poliziesco e igienico-sanitario, continuano a costituire gli strumenti dei quali l’apparato politico-istituzionale si avvale, con il pretesto di tutelare la moralità e la salute pubbliche.

Era proprio a partire da una meditata condanna dei dispositivi regolamentari che la senatrice socialista Lina Merlin presentava, in Senato (6 agosto 1948), il disegno di legge dal titolo Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui.

Pro(i)stituzioni-Crimen-Merlin-Prostituzione
Crimen, 27 (1952)

 

Il progetto di legge si ispirava all’abolizionismo francese che, nel 1946, aveva sancito la chiusura delle maisons closes nel Paese pioniere del regolamentismo europeo. Marthe Richard, ex prostituta divenuta poi un’influente esponente del Movimento repubblicano popolare, propose un provvedimento che, dapprima circoscritto alla Capitale, si estese, poi, all’intera Francia. Ideologicamente concordi nel condannare la complicità delle pubbliche istituzioni nello sfruttamento delle prostitute, Merlin e Richard, come si vedrà in seguito, finiranno per divergere sul terreno attuativo delle rispettive proposte.

La sensibilità di genere che contraddistinse l’attività politica di Lina Merlin, la indusse ad avanzare una proposta tesa a attuare, sul piano legislativo, il principio di uguaglianza formale sancito dall’articolo 3 della Costituzione. La registrazione delle prostitute negli elenchi della pubblica sicurezza e il loro confinamento nelle case chiuse, in uno stato di sfruttamento economico, mortificando la dignità femminile, costituivano una contraddizione evidente con quanto sancito dal citato articolo.

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