Lasciti lombrosiani fin nel cuore degli anni Settanta. «Costituzione delinquenziale» e prostituzione in Benigno Di Tullio, fondatore della criminologia clinica

Lasciti lombrosiani fin nel cuore degli anni Settanta. «Costituzione delinquenziale» e prostituzione in Benigno Di Tullio, fondatore della criminologia clinica

Abstract: Benigno Di Tullio (1896-1979), esponente di punta della terza generazione della scuola lombrosiana nonché fondatore della criminologia clinica, avrebbe sostenuto nella sua intera produzione scientifica, che si dipana fino agli Settanta, e segnatamente nella manualistica, la validità del determinismo biologico lombrosiano. Della teorizzata «costituzione delinquenziale» come anche della sua posizione in materia di prostituzione, Di Tullio affermò poi l’assoluta continuità con la Scuola positiva, sottacendo consapevolmente di questa la pluralità delle voci.

Pierluigi Baima Bollone, nel suo Dall’antropologia criminale alla criminologia, di inizio millennio, qualifica Benigno Di Tullio come «il più attivo cultore degli ultimi sviluppi della antropologia criminale» nonché fondatore della criminologia clinica, vale a dire di quella branca, anche applicativa, della criminologia che, in relazione a specifici casi, fornisce una ricostruzione (diagnosi) dei fattori che hanno contribuito alla genesi (criminogenesi) e all’esecuzione (criminodinamica) del reato, una prognosi circa il grado di pericolosità sociale del reo ed una possibile terapia ai fini della sua rieducazione.

Negli anni Settanta, nella sua produzione manualistica in materia di criminologia, conclusiva di un impegno sistematizzante pluridecennale, Di Tullio presentava l’individuo «come composto unitario nel quale le forze ereditarie ed acquisite, biologiche e psicologiche, sociali e culturali, si ritrovano strettamente fuse fra di loro, per cui solo lo studio approfondito del caso singolo può far conoscere la reale importanza che spetta ai vari fattori della criminalità». Da qui discendeva la necessità di un’ulteriore partizione della criminogenesi in «bio» e «psico-criminogenesi».

Già nei suoi precedenti trattati e lavori d’assieme, lo studioso molisano aveva sottolineato il debito contratto dall’approccio «clinico», del «caso singolo», nei confronti dell’indirizzo costituzionalistico pendiano. Era stata difatti la «fase costituzionalistica-biotipologica», sviluppatasi a partire dagli anni Venti con le figure di Achille De Giovanni, Giacinto Viola, Ernst Kretschmer e, per l’appunto, Nicola Pende, ad aver assicurato il maggiore progresso agli studi criminologici, consentendo all’antropologia criminale di superare un non meglio specificato momento «di arresto»; fase, peraltro, che fatta derivare, insieme a quella «psicologica», inaugurata da Sante De Sanctis, dalla scuola romana di antropologia criminale di Salvatore Ottolenghi, Di Tullio, allievo di quest’ultimo, voleva far discendere, se pur indirettamente, dal robusto tronco lombrosiano.

La solidità di tali ramificazioni, che imponeva si ragionasse «non di decadenza, ma di evoluzione delle dottrine lombrosiane», era attestata dalla circostanza che Di Tullio, al di là del solito plauso di prammatica che dipingeva Lombroso come colui che aveva «iniziato e diffuso nello studio del delinquente» quel metodo scientifico, nato con Bacone, Galileo e Cartesio, che aveva rivelato l’inconsistenza degli studi criminali delle epoche precedenti, affidatisi al metodo «intuitivo-empirico», celebrasse anche le salutari ricadute, nella legislazione e nella politica criminale di un sempre maggior numero di Stati, della «fase […] così detta eclettica» dell’impostazione dell’antropologo veronese, «in cui viene data eguale importanza sia alle teorie biologiche che sociali»; fase che, a partire dai lavori di Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, aveva rinnovato per l’appunto la «giustizia penale internazionale». Quest’ultimo studioso, infatti, aveva fatto «sentire la sua influenza su tutte le riforme che sono state realizzate nel campo del Diritto Penale in questi ultimi cinquant’anni», in termini di prevenzione della criminalità, rieducazione del criminale e «difesa della società» (mentre merito del criminologo mantovano era stato quello di aver proposto nel 1921 un progetto di codice penale, peraltro mai entrato in vigore, che sostituisse al «concetto di responsabilità morale» quello «di responsabilità legale»).

Di Tullio-Prostituzione-Lombroso
La Scuola Positiva

 

Di fronte a tali riconoscimenti della scuola e della tradizione lombrosiana, Di Tullio non poteva allora non esprimere, ancora agli inizi degli anni Settanta, tutto il suo stupore nei confronti dell’ostilità della maggioranza dei penalisti italiani a una riforma del codice penale che abbandonasse la concezione retributiva della pena, ostilità ribadita per l’ennesima volta al decimo congresso internazionale di diritto penale, svoltosi a Roma dal 27 settembre al 5 ottobre 1969.

A tale ritrosia Di Tullio replicava che se

 

[era] stata la Scuola Classica a far conoscere, per prima, le leggi alla Giustizia ed a gettare le basi del Diritto Penale; [era] stata la Scuola Positiva che ha fatto conoscere, per prima, gli uomini alla giustizia ed a far sentire il bisogno di dare al Diritto Penale nuove importanti finalità. Se è vero, cioè, che il reato è un fatto giuridico, è non meno vero che lo stesso reato è l’azione di un uomo, che può essere compresa nel suo vero significato solo se inquadrata nella personalità di colui che l’ha ideato e compiuto.

 

Questa acquisizione scientifica, precisava con soddisfazione Di Tullio, era stata infine riconosciuta anche da Agostino Gemelli, il quale, pur ostile alla scuola positiva, ne aveva, secondo lo studioso molisano, sostanzialmente riproposto le tesi. Gemelli, infatti, scriveva Di Tullio, aveva teorizzato che la causa del reato dovesse essere ricercata «negli istinti» e «nelle tendenze» del reo e che occorresse esaminare la personalità di questi per verificare se e in che misura fosse rieducabile. Sarebbe allora stato opportuno, secondo il medico e psicologo cattolico, inserire il progetto di riforma del codice penale, avanzato nel biennio 1949-1950 (e abbandonato perché considerato poco innovativo rispetto al codice Rocco), all’interno di «una serie di previdenze e di provvidenze che debbono incominciare dalla constatazione della natura del delitto, sino alla auspicata riforma di tutte le opere carcerarie». Gemelli, ricordava ancora Di Tullio, aveva affermato la necessità che tali misure fossero affidate ad una commissione di criminologi e inserite in un codice di «difesa sociale», connesso a quello penale.

Anche in Di Tullio preoccupazione pressante, e reiteratamente espressa, era la distinzione tra la funzione del giudice che accertava il reato e quella diretta «a individualizzare la sanzione», nella sua durata come nella sua natura. In quest’ultimo ambito, il giudice necessitava dell’«esame medico, psicologico, e sociale della personalità del reo», ai fini dell’identificazione del trattamento rieducativo più idoneo. Una improrogabile divisione dei compiti si imponeva, allora, tra diritto penale e criminologia. Da qui l’impellenza «di una giurisdizione penitenziaria specializzata, in cui il processo all’uomo possa svolgersi attraverso la più stretta collaborazione con esperti criminologi, che richiede, peraltro, l’esistenza di Centri di Osservazione e di Trattamento criminologico». Gli stessi penalisti, aggiungeva Di Tullio, avevano dovuto infine ammettere che «il processo al fatto» non potesse che essere «un provvedimento provvisorio», modificabile durante la pena (da qui la ribadita necessità di «un giudice di esecuzione» altro da quello che aveva emesso la sentenza).

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Immagine di copertina, foto di Dariusz Sankowski da Pixabay

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