Una prigione non solo penale: il carcere femminile di San Michele a Ripa e la sua infermeria (1733-1840)

Una prigione non solo penale: il carcere femminile di San Michele a Ripa e la sua infermeria (1733-1840)

Abstract: L’articolo riprende la discussione già aperta dal «Giornale di Storia» sul rapporto tra storia delle prigioni e rappresentazioni – giuridiche, storiche, letterarie – delle stesse, a partire dal caso del carcere femminile di San Michele a Roma tra 1733 e il 1840. Ricostruendo la centralità del ruolo della infermeria all’interno dell’istituto, l’obiettivo è quello di sottolineare la persistenza di forme di internamento diverse da quelle penali che la Casa di correzione continuò a svolgere nonostante le dichiarazioni istitutive.
Attraverso l’analisi degli articolati spazi del carcere e delle fonti sull’organizzazione interna – in particolare legate al rapporto spesso conflittuale tra appaltatori e medici sotto il controllo della confraternita di San Girolamo della carità – si intende problematizzare la rappresentazione basata sulla esclusività della funzione penale dei penitenziari moderni trasmessa dal dibattito sulla riforma della prigione e non di rado introiettata dalla storiografia stessa.

Il numero del «Giornale di Storia» dedicato ai Dialoghi sul carcere del 2021 ha posto l’accento sul rapporto tra storia delle istituzioni penitenziarie e rappresentazioni delle stesse, mirando ad analizzare – fino a decostruire – le narrazioni sulle prigioni nate contestualmente o successivamente all’evoluzione di questi luoghi di detenzione.  Le considerazioni sviluppate in diversi saggi di taglio storico, presenti nel numero monografico, insistevano in particolare su quanto determinate rappresentazioni dei luoghi di pena, trasmesse sin dai documenti istitutivi, avessero costituito la base per la trasmissione di una immagine stereotipata e spesso non del tutto aderente al reale funzionamento dei penitenziari. La tesi di fondo identificava così nel discorso – giuridico, storico, letterario – sul carcere la traduzione più fedele dei principi promossi dagli ideatori delle nuove prigioni settecentesche, viceversa frequentemente smentiti nel funzionamento concreto degli istituti che invece seguivano altre logiche, dettate da necessità concrete.

In altri termini, la rappresentazione dell’efficacia punitiva è stata in questa prospettiva interpretata come lo strumento privilegiato di legittimazione del “penitenziario moderno” consolidatosi in contesti diversi nel corso del XVIII secolo. Nell’ambito del movimento di riforma della prigione denominato “penitenziarismo”, sviluppatosi su scala transnazionale, il discorso sul carcere costituì perciò un pilastro della sua affermazione come migliore delle soluzioni possibili al problema etico e giuridico della punizione. La modernità e l’efficacia del penitenziario erano dimostrate da questa stessa capacità di rappresentarsi e raccogliere consenso in un sempre più largo dibattito pubblico. Dalla spinta iniziale impressa dall’Illuminismo giuridico fino alle istanze del Liberalismo degli anni Trenta dell’Ottocento, utilità e specializzazione della pena presero infatti a identificare la svolta del nuovo modello penitenziario. In tal modo quella che è stata definita “mediatizzazione” del carcere, grazie al proliferare dei nuovi mezzi di comunicazione, veicolava un messaggio incentrato sulla necessità di introdurre questi nuovi penitenziari in quanto luoghi esclusivamente punitivi e non più confusi con altre forme correttive della reclusione. 

La stessa enfasi sulla esclusività dell’elemento punitivo caratterizzò i peculiari esperimenti pontifici su cui queste pagine tornano a soffermarsi, motivando altresì la rivendicazione di un primato romano nella concezione moderna di carcere.  Al contrario, principale obiettivo del presente contributo è appunto quello di problematizzare tale rappresentazione basata sulla esclusività della funzione punitiva dei penitenziari moderni, non di rado introiettata dalla storiografia stessa: se infatti la qualificazione giuridica nei nuovi sistemi penali era di tipo punitivo, nella pratica detentiva restavano molte più sfumature nelle tipologie di trattamento. Quindi non soltanto, come nuovi studi continuano a dimostrare,  la transizione verso un sistema punitivo incentrato sul carcere fu molto più lenta di come a lungo si è sostenuto, ma l’identità stessa del regime punitivo carcerario si basò sulla sussunzione di funzioni correttive molteplici svolte all’interno di uno stesso luogo, certo vincolato alla condanna di un organismo giudicante, ma non sempre da una sentenza. Ad essere chiamata in causa, in linea con i recenti sviluppi del dibattito, è ancora una volta la narrazione storiografica della “nascita della prigione”, specialmente nella sua accezione di cesura storica con le pratiche di internamento vario e confuso dell’antico regime.  Il paradigma del grande internamento è stato già di per sé al centro di una discussione tesa a ridimensionare la sua portata di modalità unica e generalizzata di contenimento della povertà e del disordine sociale nella prima età moderna.  Alcuni spunti di questo confronto storiografico sul pauperismo si prestano allora utilmente a ripensare il ruolo delle stesse istituzioni reclusive per eccellenza che, a partire dal XVIII secolo, si identificarono con la specializzazione della carcerazione penale, ora circoscritta a una classe dei criminali ben distinta dalle altre categorie sociali appartenenti della sfera onnicomprensiva della devianza.

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