Cumulo di pene e fotografie

Cumulo di pene e fotografie
M. Delogu, Shujaa-Graham

Abstract:

Cumulo di pene e fotografie

di Marco Delogu

Decido di andare a ritrarre detenuti per capire che fine hanno fatto alcune delle persone con cui ho diviso l’adolescenza e che dopo vent’anni sono ancora in carcere. Erano miei avversari, mi hanno rovinato giornate e mesi, rovinato sonni e sogni. Entro a Rebibbia e devo cercare di capire un codice che non conosco. Dopo poco sono più interessato a tutta un’umanità che non ho mai incontrato, e non avrei avuto occasione di incontrare, piuttosto che ha riconoscere vecchi avversari politici di gioventù [mi salutarono e mi chiesero soltanto notizie delle belle ragazze della scuola].

Fotografo contemporaneamente detenuti e cardinali in pensione, due comunità completamente diverse. Strano a dirsi ma la loro composizione è mutata nelle stesse percentuali, proprio durante gli anni delle mie fotografie; da due terzi italiani e un terzo stranieri, questo equilibrio si invertì perfettamente.

Cardinali e carcerati viaggiano paralleli. Li fotografo come esseri umani e come membri di comunità. Quando vogliono parlare sto ore a sentirli. Ratzinger mi parlò per una mezzora abbondante, Concutelli un pò di più mentre mi cucinava degli orribili spaghetti con il suo camping gas, rito frutto di un vecchio patto degli anni Settanta.

Ragazzi con pene brevi non si danno pace, hanno poco da raccontare, contano solo i giorni che mancano. Alcuni detenuti sono di una simpatia inarrivabile. Ergastolani che non avrei mai pensato di incontrare, raccontano episodi che farebbero rabbrividire Quentin Tarantino. Altri raccontano storie diametralmente opposte a seconda dei giorni, non capisco quale è quella vera, ma le prendo tutte come piccole parti di una fiction.

Portai un ergastolano in libera uscita a pranzo dalla mia anziana madre che lo riconobbe e senza troppe esitazioni mi chiese il perché di quell’“invito”. Il pranzo fu pieno di silenzi, mia madre era perfettamente a suo agio nella sua sincera durezza, l’ergastolano molto meno.

Iniziare il ciclo dei ritratti non è stato facile. Edoardo [Albinati] mi ospitò nella sua classe e tutto fu molto più semplice. Lombroso non ha capito molto, facce terribili si associavano a uomini che scontavano anni per reati assurdi che neanche lo scemo della classe avrebbe mai pensato di compiere. Facce a prima vista da idioti totali, avevano fondato bande delle mazze ferrate, gang che terrorizzavano interi quartieri in modo sistematico, o ucciso bambini sciogliendoli nell’acido. Insomma Lombroso e le sue misurazioni sono veramente dei grandi abbagli scientifici, ma questo era già stato scoperto a Ferrara con la storia dei fratelli De Chirico in ospedale.

Sono entrato in carcere 50 volte. Le prime volte le serrature che mi si chiudevano dietro mi davano fastidio, dopo poco mi ero completamente abituato. Anni dopo fotografai dodici detenuti nelle carceri americane [uno in Irlanda] che scamparono alla pena di morte venendo riconosciuti innocenti dopo molti anni di carcerazione. Mi sembrarono completamente diversi, raccontavano le loro storie del prima e del dopo carcerazione. Lo stato federale americano, pur riconoscendo l’errore giudiziario, non li ha mai ricompensati nemmeno con un dollaro. Kerry Max Cook ha passato più di 20 anni in galera e percorso l’ultimo miglio tre volte.

Quando entrai la prima volta a Rebibbia era una tipica giornata grigia e l’umore al sesto giro di grandi chiavi che mi si chiudevano alle spalle era veramente basso come il cielo sopra l’edificio carcerario. Vedevo decine di detenuti in tute da ginnastica lucide e il mio senso di pietà cresceva ogni minuto. Dopo poche entrate in carcere quel senso era abbastanza sparito, scalzato da un cinismo tipico di Roma che internamente recitava così: «anvedi quanti fiji de na m. tutti insieme». Decisi che l’unico modo era il confronto singolo, io che chiedevo di fare un ritratto e loro che decidevano di accettare [per il regolamento penitenziario solo i detenuti con sentenza definitiva – non appellanti – possono firmare la liberatoria]. I ritratti duravano mediamente mezz’ora, il tempo di allestire la mia grande macchina a lastre, tre o quattro fotografie scattate con una pellicola polaroid 55 b/n che restituiva subito un negativo e un positivo entrambi di 10×12 cm. Il positivo su carta veniva subito commentato. Io cercavo un equilibrio tra la persona e il luogo, parte importante della fotografia: ritraevo persone costrette in quei luoghi e la geometria del rapporto tra i loro corpi e le architetture che li contenevano era importante [per la cronaca il progettista di Rebibbia, l’architetto Sergio Lenci, venne sparato alla nuca e visse il resto dei suoi anni – dal 1980 al 2001 – con un proiettile nella testa].

Nazzareno Zambotti è stato uno dei detenuti con cui passai più tempo. In carcere per reati comuni e per cumulo di pene, quando lo conobbi aveva passato più di 27 anni recluso, sempre per reati minori. Einaudi gli pubblicò un libro autobiografico Perché non sono diventato un serial killer dove lui raccontava, secondo me spesso inventando, episodi deliranti. Il primo episodio era quello della sua nascita per “merito” di un aristocratico romano che aveva sedotto o violentato la sua donna delle pulizie, appunto la signora Zambotti, la quale avendo già una zeta nel cognome decise di registrare suo figlio all’anagrafe il primo gennaio del 1948 [stesso giorno della Costituzione] con due zeta nel nome. Nazzareno si fece fotografare nella cappella del carcere di Rebibbia dove aveva il permesso di trascorrere molte ore per dipingere. Insistette nel voler controllare l’inquadratura e lo lasciai fare. Anni dopo lo incontrai per caso su un treno locale da Latina a Roma e lo salutai calorosamente; la sua risposta fu: «a Ma’ vattene che so pieno de roba e se passa la polizia ce caricano a tutti e due». Sicuramente mentiva ma gli lasciai giocare il suo ruolo di criminale che purtroppo gli rovinò la vita.

Concutelli non lo volevo fotografare, fu l’ultima immagine che realizzai a Rebibbia e per me anche la più bella. Un anno prima mi avevano chiuso in una sala computer per oltre mezz’ora con lui, a causa di una piccola rivolta che doveva essere sedata senza occhi esterni. All’inizio ebbi molta paura [sono claustrofobico e stare chiuso in una stanza con uno che ha ucciso due o forse tre detenuti con le proprie mani non mi rassicurava affatto]. Concutelli mi riconobbe [giravo da più di un anno nel reparto g8 e logicamente tutti conoscevano chi ero e pezzi della mia storia], sapeva chi era mio padre e sapeva che la famiglia Occorsio era in relazione con mio padre. Mi chiese di parlare con Eugenio Occorsio [il figlio di Vittorio, giornalista a «La Repubblica»] per chiedergli di ritirare la causa contro di lui in quanto aveva ucciso suo padre come membro dello Stato e non come libero cittadino. Non so dove trovai il coraggio ma gli risposi che non l’avrei mai fatto. Concutelli farfugliò con la sua voce cavernicola, poche altre parole e poco dopo ci aprirono perché la piccola rivolta era stata sedata. Passò un anno e con Giorgio Pannizzari passai davanti alla cella di Concutelli. Pannizzari gli ordinò di cucinare gli spaghetti per tre [il patto dell’Asinara del 1978, quando ancora detenuti di destra e di sinistra erano rigorosamente divisi, prevedeva che Concutelli e Tuti avrebbero dovuto cucinare per i detenuti di sinistra che all’Asinara li avevano “graziati”]. In realtà erano solo spaghetti provenienti dalla mensa centrale, orribilmente riscaldati. In questa pessima operazione gastronomica Concutelli riuscì a bruciarsi un pezzo della sua barba. Lo fotografai dopo pranzo mentre con un pò di schiuma si radeva dopo molti anni.

Shujaa-Graham
M. Delogu, Shujaa-Graham
Pierluigi Concutelli
M. Delogu, Pierluigi Concutelli
Nazzareno Zambotti
M. Delogu, Nazzareno Zambotti
Kerry-Max-Cook
M. Delogu, Kerry-Max-Cook
Giorgio-Pannizzari
M. Delogu, Giorgio-Pannizzari
Derrick-Jamison
M. Delogu, Derrick-Jamison
Ceste o pacchi
M. Delogu, Ceste o pacchi
Billy-Moore
M. Delogu, Billy-Moore
Ali Maleki
M. Delogu, Ali Maleki

Delogu_-Cumulo_di_pene

Autore